Ho imparato che il “colon irritabile” non è un tratto di intestino con i nervi a fior di pelle, ma è afflitto da una patologia piuttosto fastidiosa, responsabile di una serie di spiacevolissimi… disturbi, certamente imbarazzanti per sé, ma, si presume, forse anche per gli altri (per immaginare i quali non è necessario l’acume del Da Vinci…).
Solo che non l’ho imparato curiosando su Wikipedia, ma – ahimè – a tavola, poco prima di cena.
Da qualche tempo dilaga in televisione (almeno, sui canali sui quali indugio io a quell’ora…) una bizzarra abitudine: più o meno intorno alle venti, infatti, (probabilmente per insondabili “questioni” di fasce orarie d’ascolto), la pubblicità indaga sullo stato di salute dei nostri intestini. E non lo fa, ovviamente, ricorrendo a fini allusioni (del resto, perché gli autori delle pubblicità dovrebbero lambiccarsi il cervello, in improbabili acrobazie concettuali?), pensando che, magari, qualcuno li sta ascoltando, portando la forchetta alla bocca, ma producendosi in brutali e dettagliate descrizioni…
In altre parole, per augurarci “buon appetito”, lo spot induce a riflettere sul “destino” scontato della nostra… cena.
E’ vero: basterebbe togliere il volume, per un attimo, per evitare di raccogliere le imbarazzanti “confessioni da toilette” di questo “popolo” alle prese con un colon capriccioso e invece cambio canale. Ma solo per imbattermi, questa volta, in una piacente signorina, che volteggiando leggiadra, in mutandine e reggiseno, come un’etoile della Scala, annuncia al mondo che “nel suo “intimo” (e Freud non c’entra nulla: l’inquadratura, del resto non dà spazio ad equivoci…), c’è xyz”: segue la marca di un detergente…
Mi arrendo: spengo la tele e sotto con la “carbonara”…
Sono d’accordo, sempre quando si è a tavola. E basta!
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Faccio appello ai diritti del consumatore… di pasti!
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