È uno di quei posti che meno li si frequentano e meglio è; e quando proprio non possiamo evitarlo non ci andiamo mai troppo volentieri, sia che lo facciamo da “visitatori” sia, soprattutto, che lo facciamo da “utenti”.
Gli ospedali, lo sappiamo, non sono mai propriamente luoghi in cui risulti facile dispensare sorrisi (tranne in alcuni casi: penso ai reparti in cui vengono al mondo i bambini, ad esempio), ma certo possono accompagnarci in qualche riflessione, ora che un po’ tutti abbiamo già messo il costume in valigia.

Spesso, recandosi a far visita a qualcuno, può capitare di incrociare conoscenti, amici perduti, che non vedevamo da secoli. Dopo i vari “da quanto tempo che…” si arriva al “dunque”: una persona cara ricoverata. Allora, ecco che le parole non servono più: bastano gli sguardi a parlare; basta un’occhiata per capirsi e farsi coraggio…

Gli ospedali sono anche questo, pensavo, “terre di confine” in cui le maschere, le ipocrisie non servono più a nulla; sono un luogo in cui dobbiamo fare i conti con le nostre fragilità, con il nostro scontare il fatto di essere “soltanto uomini” e niente di più…

Sono posti in cui il tempo si ferma; in cui si respirano la sofferenza, il dolore, la speranza, ma anche la solidarietà, l’affetto, la voglia di farcela e di lottare, per poter far ripartire l'”orologio” della nostra vita.