“Non ti sia , il mio cuore, né gabbia, né tormento, ma solo felice ristoro alle fatiche del vivere d’amore…
Per sempre tua, (e qui, si legge solo un’iniziale: “W”)”.
Era questo il biglietto (denso di un Romanticismo d’altri tempi, ormai desueto e dimenticato), legato con un sottile nastro rosso, ad una rosa dallo stelo lungo, di un sensuale colore vermiglio, “abbandonata” sul marciapiede, a testimonianza, chissà, di un “ultimo atto”, dal finale tutt’altro che lieto, di un rapporto sentimentale tra due persone.

Nel raccogliere quel fiore, per adagiarlo su una panchina (è stato più forte di me…), non ho potuto fare a meno di leggere quelle poche parole, vergate a mano (gli occhi, si sa, fanno il loro mestiere, non curandosi affatto di discrezione o privacy, semplicemente “rubando”, del tutto involontariamente, emozioni); il resto è l’“opinabile” figlio dell’immaginazione.
L’amore è caparbio; è testardo: quando sceglie di “vivere”, senza volersi arrendere all’evidenza della “fine” di una relazione, sa accontentarsi di nulla, si “abbarbica” agli “spiccioli”, a ricordi lontani, per garantirsi una stupida sopravvivenza; scovando spiragli e inventando pretesti “a favore”, che si rivelano, poi, capaci soltanto di allungare un’agonia inattesa, quanto dolorosa.
Questo, perché l’amore non “respira” orgoglio, anzi: riesce a trasformare un’umile e intima vocazione alla speranza nella propria dignità…
Del resto, dove c’è amore c’è anche tanta speranza… E ciò non stupisca, più di tanto, dal momento che, in fondo, ogni amore nasce sulle fragili ali di una “primigenia” speranza, comune a tutti gli amori: quella di riuscire far breccia nel cuore di una persona… “speciale”.